Qualche giorno fa, al termine di uno dei miei corsi di scrittura, un allievo tra i più validi mi prende in disparte. Mi aspetto che si metta a scherzare su questo o quel fatto buffo accaduto durante l’ultima lezione. Invece no, per un po’ se ne sta zitto a braccia incrociate. A me sembra un ragazzino che attende il colloquio col docente in fila con una mamma invisibile.
Quando l’ultimo compagno di corso è andato, l’allievo si decide a parlare.
“Alla fine come si fa?” chiede, guardandomi negli occhi.
“Come si fa cosa?” controdomando io.
“A scrivere. A pubblicare.”
Ecco il genitore invisibile, mi dico. Anzi, non c’è dubbio che sia lui, con le sue aspettative di adulto pragmatico, forse addirittura cinico, a parlare in vece del mio allievo. Rispondo pronto.
“A costo di risultare noiosetto, ripeto quel che ho detto nel corso delle nostre lezioni: scrivere, ti siedi e lo fai, ecco tutto. Quanto a pubblicare…”
Non è per amor di suspense che mi fermo: ma per una fitta allo stomaco. Mi ci sento io, bambino, adesso: un bimbo che di nascosto si è riempito il pancino di tonnellate di brioche industriali mangiate di nascosto. Le quali iniziano subito a farsi sentire laggiù con una serie di ROARRR, GRUNTBLGR, EGNNNGN.
“Quanto a pubblicare” mi forzo allora a dire – ma a quel punto, giuro, ben altro valore educativo avrebbe il dar di stomaco in piena faccia, quella del mio allievo, le mille merendine mangiate colla fantasia – “Sai cosa? Forse dovrei programmare un corso a parte, per questo aspetto della faccenda”.
L’allievo sorride di un mezzo sorriso malevolo, incattivito, della serie rivoglio-indietro-i-miei-soldi: ma il corso appena concluso, questo va detto, era gratuito.
“Allora aspetto quest’altro ciclo di lezioni” dice, ancora più malevolo e pronto ad andar via.
“Aspetta.”
E qui lo sento sbuffare: sarei disposto a vomitarmi sulle scarpe pur di mettere fine a questo dialogo. Invece, chissà perché, riprendo: “Puoi sempre fare un’altra cosa. I migliori sono sempre quelli senza libri, del resto.”
“Senza libri?”
“Certo. Autori senza libri. Che se va bene avranno pubblicato un libro attorno ai vent’anni, precoci e assolutamente non letti, e poi non scrivono più una riga. Al più tengono un corso di scrittura ogni cinque o sei anni. Oppure dirigono una rivista (che chiude nel giro di sei mesi al massimo), fanno editing per qualche misconosciuto editore. Ma soprattutto, sono quelli che si esprimono. Sempre. Su cosa? Su ogni romanzo appena uscito. Sulla qualità di questa o quella traduzione. Sui tic stilistici dei loro non-colleghi (per questi autori senza libri, lo stile è sempre riconducibile a una serie di tic). E intanto vantano tutta una pletora di amicizie – o inimicizie, fa lo stesso – editoriali: parlo ovviamente di altri autori senza libri. In questo modo danno l’impressione di contare qualcosa, di appartenere a chissà quale consorteria o loggia letteraria. Vedrai attorno a loro tutto uno sciame di scrittori emergenti, aspiranti critici, sbandati e badanti editoriali… A un certo punto, data l’attenzione che in un modo o nell’altro saranno riusciti a ottenere, potrebbero persino pubblicare. In qualsiasi momento.”
“E quando pubblicano…?”
Puff!, ecco che il genitore invisibile è scomparso. Riecco invece il mio valoroso allievo dallo sguardo perduto, un bambino che ha appena tirato un sospiro di sollievo alla notizia della bocciatura evitata. Allora, mentre continuo il mio ragionamento, posso iniziare a sbiadire anch’io, a sfumare nel bianco di questo foglio bianco.
“Il fatto” dico riprendendo il tono e soprattutto l’alito consumato da maestro che abbia dimostrato soprattutto a se stesso di possedere ancora un minimo di autorevolezza, “il fatto è che questi autori non pubblicano mai, nemmeno quando potrebbero. Se pubblicassero, passerebbero dall’altra parte. È un paradosso, ciccino mio, ma è tutto qui: scrivere è inutile, forse, ma pubblicare può rivelarsi addirittura fatale”.
Ammutolito, l’allievo mi indica con l’indice, ora senza più la punta così come metà del mio corpo non ha oramai più alcuna consistenza: da quell’indice puntato è iniziata pure la scomparsa del mio allievo.
“Tu” lo sento inorridire quando anche l’intero avambraccio è avvolto dalla scomparsa, “tu sei tra questi! Tu e questo inutile corso di…”
“Non c’è alcun corso” lo interrompo. “Mai tenuto uno in vita mia. Consideralo piuttosto un espediente per buttare giù questo post – uno di quelli in cui tutti, all’inizio, si identificano con me o con te… E poi, quando si passa a parlare degli autori senza libri, finiscono col pensare: ‘Ah, se è vero! Ma per fortuna non sta mica parlando di me!’ Così, tutti contenti e vagamente indignati condividono, condividono e condividono. E ora smamma, dobbiamo sparire del tutto: vorrei stare sotto i due minuti di lettura”.
A quel punto non eravamo che due minuscoli segni neri su un bianco infinito e indolore, e poi neppure quello: neppure quello, amici miei.