Sarebbe stato facile, lasciare Sylvia. Fosse stato difficile, forse l’avrei fatto.
È davvero breve, 129 pagine appena, il viaggio che il lettore compie con Leonard Michaels e la sua prima moglie Sylvia Bloch nell’appassionato memoir Sylvia (Adelphi, 2016, traduzione di Vincenzo Vergiani). Così breve che alla fine, pur toccati dal racconto, resta il sospetto che manchi qualcosa.
L’opera si apre all’inizio degli anni ’60: il giovane Leonard si è appena laureato e non sa bene cosa fare della sua vita – a parte una vaga idea di scrivere – perciò è entusiasta, aperto a ogni possibilità.
Leggevo assiduamente. Mi tenevo in contatto con la mia specie.
Nelle prime pagine il tono è quasi quello del romanzo d’avventura, lo stesso, ottimista, di chi è pronto a lasciarsi riempire dalle occasioni che certamente verranno offerte dalla vita adulta. Quasi per caso, dunque, Leonard incontra Sylvia, amica di un’amica, e se ne innamora. All’elemento dell’avventura si aggiunge quello della perturbazione, per quanto ancora leggera.
Sarebbe stata una splendida estate, rigogliosa, profumata. Avevo una ragazza. Nessun dovere. Dovevo solo esistere.
L’altera bellezza di Sylvia – ebrea come il giovane Leonard – è perturbante. Ma lo è anche il mondo che la ragazza si porta appresso: orfana, sembra provenire da un passato di dolore inaccessibile, sconosciuto come il futuro che si appresta a vivere col giovane Michaels.
Cominciò senza un inizio. Facemmo l’amore finché il pomeriggio divenne crepuscolo e il crepuscolo divenne notte fonda.
Altrettanto perturbante, del resto, è anche il primo incontro tra Leonard e Sylvia. I due, pur non avendo ancora scambiato mezza parola, sono già andati a letto insieme. Veniamo così a sapere che Sylvia ha un compagno, che non ha esitato a mettere letteralmente alla porta da un momento all’altro per fare spazio a Leonard – neppure fosse alle prese con uno dei vestiti comprati compulsivamente, qualche anno dopo, per dare sfogo alla sua insoddisfazione.
Il cappotto era del tutto insufficiente per l’inverno newyorkese, ma Sylvia pensava che le stesse d’incanto e lo portava sempre, anche nei giorni più freddi.
Dopo qualche tempo, Leonard e Sylvia si trasferiscono a Manhattan. Qui il tono avventuroso sfuma del tutto e la perturbazione si fa invece permanente: siamo nel cuore dell’opera.
Il rapporto tra i due giovani ebrei, composto in egual misura di furiose litigate, ambizioni mancate e sesso compulsivo, si dipana sullo sfondo del Greenwich Village in piena beat generation; un ambiente che Michaels riesce a tratteggiare con grande efficacia, oltre le icone e i cliché (e oltre i cameo di Ginsberg e Kerouac), in pochissime battute.
A New York ci sono molte possibilità – che l’indolente scrittore Leonard non sfrutta, gettando nel cestino un racconto dietro l’altro, mentre Sylvia, pur dotata di grande intelligenza, si limita a studiare passivamente lettere classiche – e la droga fa capolino nelle vite degli studenti per noia o perché fa parte del gioco. La promiscuità è triste e così pure, alla lunga, le serate passate in casa con giovani e brillanti professori a guardare film di Antonioni.
Vengono in mente certe ricostruzioni, di poco successive, del giornalista e scrittore Lester Bangs, in questo caso decisamente meno acide. Il succo, però, è lo stesso: Michaels descrive un’atmosfera antiborghese che diventa pienamente borghese a sua volta, tutta nelle pagine in cui Leonard si stupisce della coppia gay che abita al piano di sotto; colti e raffinati ma tutt’altro che open mind, come suol dirsi, i due omosessuali sono scandalizzati dalle continue litigate di Michaels e consorte, tanto da ignorarli quando li incontrano in corridoio come una qualsiasi coppia di anziani bigotti.
Le incomprensioni tra Leonard e Sylvia e le litigate furibonde con annesso sesso compulsivo coprono così la parte centrale dell’opera, che si fa toccante e contiene certamente un alto potenziale di bovarismo: è capitato a molti di noi, in fondo, di ficcarsi in relazioni che si protraggono per noia e paura, basate su un odio strisciante che al tempo stesso si mescola con quel tipo di sesso, piuttosto intenso, che deriva dall’assoluta mancanza di rispetto per il proprio partner; perciò per lunghi tratti Sylvia è una storia d’amore universale, che riguarda tutti. Non a tutti, però, è capitato di amare una pazza, e persino di sposarla – consapevolmente.
Nel testo, va detto, non c’è traccia di alcuna diagnosi per i disturbi di Sylvia Bloch. Sappiamo che è pazza perché lo dice Leonard: per questo da un lato ha timore a sposarla, e da un altro sente che è tenuto a farlo. Dai frammenti di diario, con cui lo stesso autore inframezza la narrazione, veniamo a conoscenza di una fissa per l’aspetto fisico (Sylvia detesta il suo naso, che il marito ovviamente adora), di una certa attitudine a colpevolizzare gli altri, dell’esercizio paranoico di ogni tipo di retropensiero; ma non si fa mai cenno, in quelle poche righe sopravvissute alla scrittura del Michaels di allora, alle possibili cause dell’isteria di Sylvia, a ciò che innesca o quantomeno anima, nel profondo, le sue ossessioni.
Al contrario, però, sappiamo tutto di Leonard, perché lo scrittore Michaels, col tempo, è quantomeno venuto a capo di sé, e riesce a definire con estrema puntualità l’effetto che Sylvia aveva su di lui.
Sylvia scoprì in me un’invalidante malattia emotiva. Insieme, la alimentavamo. Io non ero una persona abbastanza generosa, pensavo, mentre lei era un prezioso meccanismo in cui molle e rotelle delicatissime erano state brutalmente squassate dal dolore. Il dolore le dava accesso alla verità. Se Sylvia diceva che ero cattivo, aveva ragione. Non capivo il perché, ma questo era dovuto alla mia cattiveria. Non capivo perché, ma ero accecato dalla cattiveria.
A posteriori, dunque, Michaels è capace di una lettura piuttosto lucida e profonda della sua relazione proprio come a proposito dell’epoca, dello scenario in cui si svolgono i fatti. E infatti aggiunge, con implacabile nettezza, per quanto un po’ allucinata:
Io proteggevo il mio investimento, per così dire, immaginando che la sua isteria e le sue accuse non fossero disgustose e disprezzabili, bensì altamente morali, come il parossismo oracolare di un profeta del Vecchio Testamento. Erano feroci illuminazioni, momenti di grazia perversa. Non manifestazioni di follia.
È chiaro, quindi, che il giovane e vuoto Leonard, alla fine, non si è lasciato riempire dalla vita adulta come auspicato, ma da una relazione che lo consuma e in parte lo svela a se stesso. È a proposito della moglie, però, del suo dolore e della sua isteria, che nel corso dell’opera Michaels non riesce proprio a dirci di più. Non aiutano neppure gli incontri con i dottori, che accennano sì a un rapporto disfunzionale, in cui i due sposi si cibano evidentemente l’uno dell’altro, ma nulla aggiungono sulla vita interiore di Sylvia.
Per tutto il libro, la moglie di Leonard resta una specie di androide, in grado – come diceva Philip K. Dick facendo un parallelo tra schizoidi e replicanti – di simulare sentimenti e comportamenti umani fino a convincersi di appartenere alla nostra razza. Un’ombra, insomma, che diventa ancora più scura dopo la separazione, quando Sylvia arriva ad incarnare il perfetto stereotipo dell’epoca. Assistiamo così alla più inevitabile e sistematica dissoluzione, dapprima quando Sylvia inizia a prendere pillole in compagnia di uomini che sfrutta a suo piacimento, poi quando si trasforma pian piano nel calco parodistico dell’amica Agata, a sua volta già passata dal manicomio.
Di queste esperienze con uomini e sostanze Sylvia riporta aneddoti che servono solo a disturbare ulteriormente il marito, e che gli impediscono di affrontare il divorzio, la rottura definitiva. Per noi lettori, dunque, la tragedia non è tanto (non solo) la morte di Sylvia Bloch in seguito a un’overdose di pillole, quanto la sensazione di non averla conosciuta davvero, di non aver letto altro che le fisime di un essere a una dimensione, che vive d’isteria e poco altro; il che è un rischio piuttosto frequente quando si racconta la cosiddetta malattia mentale.
Può darsi che l’autore volesse descrivere, implicitamente, proprio l’inaccessibilità della vita interiore della moglie, oppure, come ha scritto Giovanni Turi, che lo scopo di Michaels fosse semplicemente raccontare la sua versione dei fatti. Tuttavia, se intendiamo la lingua letteraria come un ponte verso ciò che non conosciamo, allora la prosa curata e misurata di Sylvia è sia un pregio che un limite piuttosto evidente, nel momento in cui non è grado di indagare a fondo il personaggio eponimo di questo memoir.
Ne abbiamo l’ultima prova nel finale, quando la voce di Michaels non riesce a evitare “lo sguardo che tenta e paralizza la memoria”, per citare un altro scrittore americano, Charles D’Ambrosio, a proposito del mito di Orfeo ed Euridice. Siamo nei giorni successivi al funerale, quando Leonard ha paura di addormentarsi. Alla fine si arrende, e inizia a sognare la moglie.
Era proprio come ai vecchi tempi […] Sylvia addormentata, io infelice. Cominciai a piangere, a supplicarla, senza fare concessioni alla realtà. Il mio bisogno era la sola realtà, più reale della morte. Sylvia doveva smetterla […]. Lo fece. La abbracciai e le chiesi se avesse voglia di andare al cinema. Rispose di sì, ma non potevamo prima mangiare qualcosa? Dissi che potevamo fare qualunque cosa volesse, ma proprio qualunque cosa, e uscimmo a cercare un ristorante, disperatamente felici.
Il mio bisogno era la sola realtà, lo scrive lo stesso Michaels: il fatto è che a quel punto, dopo la realtà grigia e uniforme delle precedenti 128 pagine, un sogno non è abbastanza per rendere profondo il personaggio di Sylvia, per quanto vada comunque a compiere un finale struggente.
Nei saggi di Perdersi (minimum fax, 2016, traduzione di Martina Testa), Charles D’Ambrosio spiega che la poesia, a partire da una questione puramente tipografica, è discesa in profondità. Anzi, è bene scendere fino alla profondità giusta, suggerisce D’Abrosio, cioè quella in cui c’è un’oscurità senz’appello, se si vuole frequentare davvero una lingua poetica – nelle sue pagine, mentre ragiona su questi temi, D’Ambrosio racconta di un fratello suicida e di un altro schizoide.
Dopo la discesa, però, bisogna riuscire a tornare in superficie, come diceva l’Ismaele di Moby Dick e dunque il biblico Giobbe, “per raccontarvelo”, senza lasciarsi paralizzare dall’ultimo sguardo all’indietro verso l’inferno altrui. Per questo D’Ambrosio dice che lo sguardo di Orfeo inibisce la poesia vera: è un paradosso, ovviamente, ma è anche molto sensato se parliamo di poesia compiuta, splendente; una poesia, cioè, in grado di restituire – oltre se stessa e il proprio valore estetico – la piena risalita dall’Ade e produrre così una materia universale, che faccia smarrire i contorni del mondo conosciuto e tocchi anche ciò che gli altri, coloro che sono rimasti indietro, sono nel profondo. Solo a quel punto, conclude D’Ambrosio, la poesia – o la lingua letteraria, se pensiamo a Sylvia – è davvero salvezza (per chi crede in questo tipo di salvezza).
Come riesce a risalire dall’inferno, D’Ambrosio, nei suoi saggi? Semplice: riportando, con cura e delicatezza, le lettere dei suoi fratelli. Dando profondità al loro dolore, prima che al suo, attraverso la loro scrittura, la loro lingua. Dotandoli, in altri termini, di una vita interiore, cosa di cui sembra del tutto sprovvista la Sylvia di Micheals.
Un piccolo esempio è il modo in cui Mike, fratello di D’ambrosio, parla di sé, la lettura che dà della propria situazione psichica:
Non ho né un cane né un gatto – ma guardo gli scoiattoli e i corvi ed è la stessa cosa. Voglio comprare le noccioline da dar mangiare gli scoiattoli e il pane per gli uccelli. Costa molto meno e mi piace quanto avere un animale mio.
Quando prego vedo la mia vita che mi passa in un lampo davanti agli occhi. È molto bello. La vita mi passa in un lampo davanti agli occhi una ventina di volte l’anno. E mi succede anche altra roba del genere.
Ne ho passate tante da quando sono malato di mente – e la maggior parte, che tu ci creda o no, sono state cose belle. Grazie a tutto questo sono diventato una specie di uomo indistruttibile.
Tuo,
Mike
Quello delle lettere, della lingua propria di chi si trova in una situazione di sofferenza psichica, è ovviamente solo uno dei tanti espedienti a disposizione di un autore. James Ponsoldt, in The end of the tour, film che racconta una piccola parte della biografia dello scrittore David Foster Wallace, ne adotta un altro. Così come Wallace nel corso della sua vita, per tutta la durata il film è in lotta col rischio di confermare un cliché, in questo caso quello dello scrittore talentuoso e dannato (talentuoso perché dannato, cioè depresso). Se l’opera riesce a evitare questo inciampo, però, lo fa proprio nel finale, quando ci viene mostrato l’autore di Infinite Jest su una pista da ballo, finalmente spensierato come un qualsiasi americano bianco di trentaquattro anni.
Quella piccola scena – mentre sappiamo che Wallace morirà comunque suicida qualche anno più tardi – da un lato ci racconta un personaggio che non parla solo per bocca della psicosi, del disturbo mentale più o meno acclarato o di una lingua smaccatamente letteraria; e da un altro ci commuove, circumnavigando lo stereotipo ma non la tragedia, perché restituisce la figura di un uomo complesso – proprio nel momento in cui è preso da una banalissima serata di svago – molto più di quanto la sua biografia possa far credere.
Riportando questi ragionamenti su Sylvia, possiamo concludere che se solo Leonard Michaels fosse riuscito a farci toccare davvero anche sua moglie, noi lettori avremmo potuto amare Sylvia con pienezza e compassione, e non avremmo pianto, a pagina 129, la solita morte annunciata della solita pazza furiosa.
[Questo articolo è uscito lo scorso 28 febbraio su Ultima Pagina.]