Bello anche pensare che non verrà il Messia, perché questo è, pur così duro, un pensare. L’amaritudine del tempo messianico essendo certa e verificabile, il non veniente viene. Samuel Beckett ha costruito, intorno a una venuta non veniente, un intero dramma dell’Attesa, impersonata da due straccioni in cui ci riconosciamo. La morte dell’attesa, morire all’attesa, è il peggior morire. Così dicendo, pallidamente risuscito me stesso dal sepolcro della mia privazione di attesa. Se la gente applaude alla parola Messia caduta per caso in una piccola poesia vuol dire forse un rifiuto ad essere morti all’attesa, portati per corridoi ciechi all’obitorio dell’anima. Il successo del Godot nella prigione di San Quentin fu corda toccata, fatta vibrare felicemente nel recinto carcerario, dove evidentemente sgocciola lungo i muri un messianismo infelice.
Pensare messianicamente, sia pure con una forzatura malinconica, trattiene la mente dal precipitare nell’incretinimento generale (misteriosamente, temo, pianificato) il cui primo stadio è raggiunto facendo spazzatura delle polverizzate speranze cieche.
Pensare il Messia è soffrire per qualcosa che vale perché ci oltrepassa, per qualcosa che dai confini della carne scruta il Deserto dei Tartari che avviluppa, mare ignoto, mantenendole disperatamente vigili, le possibilità umane.

“Il Messia non viene.”
“Ma perché dovrebbe venire?”
“Non lo so.”

[…] Il sogno però non può, non potrà mai, essere tolto a tutti. Perdura in quelli di noi che, pur non riconoscibili che a fatica, anche da se stessi, recano un sogno.
Il sogno. Il sogno. Il sogno. Il sogno. Il sogno.
Sognare è lo stesso che attendere.
Ecco, hanno suonato.
Vado ad aprire.
Non c’è nessuno.
È Lui.


Guido Ceronetti | Messia