Ciascuno di noi faceva il suo lavoro giorno per giorno, fiaccamente, senza crederci, come avviene a chi sa di non operare per il proprio domani. Andavamo a teatro e ai concerti, che qualche volta si interrompevano a mezzo perché suonavano le sirene dell’allarme aereo, e questo ci sembrava un incidente ridicolo e gratificante; gli Alleati erano padroni del cielo, forse alla fine avrebbero vinto e il fascismo sarebbe finito: ma era affare loro, loro erano ricchi e potenti, avevano le portaerei e i “Liberators”. Noi no, ci avevano dichiarato “altri” e altri saremmo stati; parteggiavamo, ma ci tenevamo fuori dai giochi stupidi e crudeli degli ariani, a discutere i drammi di O’Neill o di Thornton Wilder, ad arrampicarci sulle Grigne, ad innamorarci un poco gli uni delle altre, ad inventare giochi intellettuali, e a cantare bellissime canzoni che Silvio aveva imparato da certi suoi amici valdesi. Di quello che in quegli stessi mesi avveniva in tutta l’Europa occupata dai tedeschi, nella casa di Anna Frank ad Amsterdam, nella fossa di Babi Yar presso Kiev, nel ghetto di Varsavia, a Salonicco, a Parigi, a Lidice: di questa pestilenza che stava per sommergerci non era giunta a noi alcuna notizia precisa, solo cenni vaghi e sinistri portati dai militari che ritornavano dalla Grecia o dalle retrovie del fronte russo, e che noi tendevamo a censurare. La nostra ignoranza ci concedeva di vivere, come quando sei in montagna, e la tua corda è logora e sta per spezzarsi, ma tu non lo sai e vai sicuro.


Primo Levi | Il sistema periodico