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Quello quassù è il video della presentazione del Corpo estraneo a Molfetta. Dura diciotto minuti e diciannove secondi, ma ho detto tutto quello che dovevo dire sul libro e soprattutto ho letto un pezzo di Boris Vian, che non fa mai male.
Ma, vedete.
Perché ho scritto “…dura diciotto minuti e diciannove secondi, ma”?
Perché, soprattutto su Internet (ma non solo), si parte spesso dal presupposto che non ci sia tempo per ascoltare qualcuno per quasi venti minuti. Allora abbiate pazienza e ascoltatemi, se siete capitati più o meno per caso su questo blog. Il caso è una cosa meravigliosa, nonostante il suo anagramma sia, molto banalmente, “caos”.
Qui non si fa più nulla per il caos, e molto poco per il caso. Approfittatene.
Concludo, o quasi, dicendo che il posto in cui ho fatto la presentazione era molto buio. Per cui ringrazio Valeria che ha pazientemente filmato questo bujo molto simile a quello materno abitato dal Ciàula di Pirandello, e che non paga ha anche avuto la cura di tagliare e ricucire il video.
Se avete ancora un attimo di pazienza, qui di seguito pongo una sorta di appunto preso in questi giorni sull’inesistenza (della scrittura) di Borges. Anche questo, va detto, non è un fatto accaduto per caso.
Tempo fa devo aver letto da qualche parte che Borges, per scrivere, doveva pensarsi simile più a un divulgatore che a un semplice narratore. In altri termini, lo scrittore argentino aveva bisogno di immaginare che le vicende di cui raccontava gli fossero state riferite da qualcun altro perché potesse imprimerle su carta o perché potessero passare da lui per arrivare al lettore. Forse questo spiega in maniera semplice e definitiva il suo interesse per l’eterno, il ciclico, l’immortale; o molto più semplicemente il suo riferire continuo (periodico) di altri libri infiniti, veri o immaginari, o di dispute teologiche e filosofiche che ne contengono altre annullandole. Forse questo spiega il Borges più divulgatore, appunto, che finisce per narrare di un uomo che crea un altro uomo sognandolo e scopre a sua volta d’essere un sogno (forse è questo il rapporto che c’è tra Dio e Cristo); e così spiega il ricostruire per distruggere l’intera cosmogonia biblica, che narra appunto di un’intera architettura di simboli e vicende umane sognate da alcuni uomini i quali continuano a sognare altri uomini (libri) da cui sono sognati. Un giorno la singola esistenza di George Lucas, autore della cosmogonia di Guerre Stellari, ci apparirà sospetta come ci appare oggi quella di Shakespeare; allo stesso modo ci chiederemo se Johnny Cash non fosse un nome collettivo e ci interrogheremo sulla genesi delle sue canzoni come accade oggi per Omero. Ad oggi sappiamo che Omero e Borges, secondo le teorie sulla persistenza della memoria dello scrittore argentino, sono la stessa persona.
Devo tuttavia ammettere di preferire il Borges narratore puro (e finto), in cui le doti di divulgatore diventano del tutto simili a quelle di un narratore orale; il Borges che narra vicende di sangue tipicamente sudamericane, per intenderci, in cui l’erudizione lascia il posto ai fatti degli uomini (la mia coscienza di uomo-libro mi rivela tuttavia l’identità tra le due categorie); è, questo, il Borges a cui devo la fondamentale informazione circa i criollos argentini che ho infilato nel mio ultimo libro (nelle cui pagine finali indico un certo numero di fonti; manca quella di Borges perché, con tutta probabilità, avevo dimenticato di aver attinto a lui. In effetti non saprei dire in quale dei suoi scritti avevo trovato quelle notizie sui criollos; questo mi fa sospettare che la mia teoria sulla dimenticanza che purifica il sapere non è molto dissimile da quella, del tutto speculare, sulla persistenza della memoria dello scrittore argentino: nel momento in cui l’ho citato senza alcuna consapevolezza, io ero lui; come Pierre Menard è stato Cervantes e lo stesso Borges, come detto, Omero).
Convengo, convergo e mi converto a Borges quale religione illusoria nel momento in cui è abitato dal mistero della linguistica e nel momento in cui mi ricorda che noi abitiamo soprattutto la nostra lingua; ma qui voglio dire un’altra cosa. Ci sono alcuni periodi o concetti dello scrittore argentino che potrei menzionare e che dicono della sua immensità; lampi – forse d’imbecillità come diceva Flaiano a proposito di se stesso, intendendo appunto quegli attimi in cui c’è il cuore, crudo, di chi scrive; concetti di questo genere: “La gloria è una forma d’incomprensione, forse la peggiore”; oppure: “Con sollievo, con umiliazione, con terrore, comprese che anche lui era una parvenza, che un altro stava sognando”; e ancora: “Secoli e secoli, e solo nel presente accadono i fatti; innumerevoli uomini nell’aria, sulla terra e nel mare, e tutto ciò che realmente accade, accade a me…”. Ma qui, dicevo, voglio dire un’altra cosa. Ero a letto e leggevo alla maniera distratta di certi pomeriggi d’estate, pensavo all’essere strumento, mezzo di trasmissione tra pianeti diversi e di tanto in tanto mi veniva in mente una donna, l’intimità con lei; non ero concentrato e soffrivo il senso di colpa di leggere in quel modo un autore come Borges e la complessità che presuppone. Scorrevo questo periodo: “Così procedetti io stesso, mentre i miei occhi d’uomo già morto registravano il fluire di quel giorno che forse era l’ultimo, e la diffusione della notte” e non riuscivo ad assimilarlo in alcun modo. Provavo e riprovavo, ma i miei occhi scorrevano sulla pagina senza nulla ricevere e nulla restituire. Allora, in quel momento, senza preavviso, ho visto Borges; non il Borges della Biblioteca di Babele e neppure quello delle pampas selvagge – o forse entrambi; in ogni caso ho visto l’uomo, in una stanza, tutto preso dal senso di quel che stava scrivendo, con addosso l’ardore e il senso d’invincibilità che dovevano appartenere a un individuo che anelava alla propria non-esistenza e che la inseguiva scrivendo volumi fondamentali o anche solo plausibili per la storia di almeno un tipo di umanità; nel mio distratto scansare il fuoco delle parole di quella precisa frase, con la mente rivolta a tutt’altri pensieri, io ho sentito tutta l’inutilità dell’esistenza della scrittura di Jorge Luis Borges.