Torno a presentare Il corpo estraneo il prossimo 10 agosto a Molfetta, in provincia di Bari, in una serata che avrà a che fare con stelle cadenti, mare e Brunori Sas (qui il programma completo della cosa). Ne approfitto per porre qui di seguito un estratto del libro a cui sono molto legato, in cui si parla di motel, criollos e coincidenza di lingua e origini (già pubblicato su Vicolo Cannery qualche mese addietro). Prego:

Il motel è un edificio lungo a un piano. Nel parcheggio ci sono due o tre camion. L’insegna, da quel che ho potuto vedere sotto la pioggia, è di un giallo insignificante, tendente all’arancio. Una delle lettere è irrimediabilmente spenta. La signora alla reception ci ha guardato e parlato come infastidita da qualcosa che non ci avrebbe detto per nulla al mondo. Lei ha dato i suoi documenti, siamo usciti per l’ultima volta sotto la pioggia e ci siamo infilati nella nostra stanza dopo aver insistito con la serratura, non voleva saperne e io stavo per tornare dalla signora a protestare. Non abbiamo discusso del letto matrimoniale, realizzando solo allora di aver preso una stanza per due. Ho pensato ai suoi soldi, a quanti ne ha con sé. Ho pensato se basteranno, a far cosa, mi sono chiesto poi. Mentre lei toglieva gli abiti bagnati mi sono voltato alla finestra, ho osservato a lungo, o almeno così mi è sembrato, l’auto illuminata dalla luce fradicia e graffiata dagli aghi di pioggia obliqua. Forse dovevo portare la borsa qui. Mi sono voltato, non ho sentito pudore e l’ho guardata distesa di spalle, nel letto. Sulla sua schiena nuda la spina dorsale disegnava dei sassolini come sul pelo dell’acqua di uno stagno. Ho sentito le gambe stanche, mi sono disteso nella mia parte di letto, lei non si è mossa. Ho tolto le scarpe, mi sono fermato a guardare il libro sul comodino ma non ho avuto la forza di prenderlo in mano per capire di cosa si trattasse. Ne ho fissato la copertina nera e sdrucita sotto la lampada fissata sul muro. Poi ho guardato la luce arancio che si spandeva e ho sentito il sonno di lei, l’ho sentito nelle vibrazioni sul materasso e nel soffio del suo naso, e ho concluso che fino a quel momento lei era stata sincera con me.

Mi sveglio nell’illusione di essere altrove, un posto intimo. Non so se è casa, la villa degli zii, o uno dei miei alberghi in giro per l’Italia. Ho anche l’illusione della colazione, del ritmo lento dei miei risvegli dai ricordi. Avverto un dolore alle gambe, è un dolore antico e certi dolori antichi hanno precedenza su tutto, anche sul qui e sull’ora strana che sto vivendo. Per la prima volta da due giorni penso al mio pene. Lo focalizzo smorto, massacrato dalle ferite sul tronco e sul glande, le piccole piaghe dell’agitare compulsivo. Mi accorgo allora di essere altrove, sento caldo ai piedi e ho una manica della camicia ancora umida di pioggia. Per il resto sono asciutto. Lei è accanto a me, adesso sono sveglio davvero, ha infilato una maglia e mi guarda. È la seconda volta che mi sorride anche con gli occhi da che la conosco. Per un attimo torna il sonno, non capisco dove sono, poi capisco il motivo del suo sorridermi: chiede se ho dormito davvero così, coi vestiti addosso. Ho la voce bassa di ogni mattino, le dico di sì sorridendo anch’io, che dormo sempre così. Lei ride e non chiede altre spiegazioni. Il vento e la pioggia scuotono la tapparella. Chiedo da quanto è sveglia, se ha smesso di piovere. Dice che è in piedi da un paio d’ore e che ha piovuto molto forte fino a mezz’ora fa, forse sta riprendendo. Tra le mani ha il libro che ho visto sul comodino dal mio lato. È una Bibbia, lei la tiene chiusa con entrambe le mani. Dice che potremmo fare una cosa. Le chiedo cosa, la voce di sonno. Dice che, visto che entrambi abbiamo delle vite familiari piuttosto complicate, potremmo scriverle sull’ultima pagina di questa Bibbia come facevano gli immigrati europei in Argentina. I criollos, specifica, ma il suo naso dice che non è certa di quel che racconta. Le dico che non sapevo di questa cosa dell’Argentina. Lei dice che la cosa andava avanti solo per le prime generazioni di immigrati, perché poi la gente finiva a fare lavori e vite molto più umili rispetto a quel che avevano in Europa e così nel corso degli anni arrivavano a regredire, a diventare guappi analfabeti fino a dimenticare le proprie origini. Dimenticavano la loro lingua e la loro storia, dice una cosa del genere, poi ride e sbuffa facendo sollevare la frangia involontaria che le si era formata davanti agli occhi.
«È buffo, io ti racconto tutto quel che so dell’Argentina mentre tu pensi al Brasile.»
La cosa manomette ulteriormente il mio risveglio. Un sonno leggero mi brucia gli occhi, sorridendole per cortesia mi giro e faccio per riaddormentarmi. Cerco di ricordare se ho avuto erezioni durante la notte. Adesso vorrei sfuggirle.