Cortazar-2

Furbo e fintamente modesto come un picador (o un fluffer) di un’intera provincia letteraria lanciata nello spazio al posto di una cagnetta inconsapevole, Roberto Bolaño è morto prima di compiere la sua opera. Ma soprattutto, è morto prima che gli altri, i critici, gli epigoni o gli editori (che comunque ci hanno provato), potessero completarla al posto suo. Morendo, si è impedito di diventare il prossimo Gabriel García Márquez o più in generale il prossimo megafono di qualche finto regime democratico sudamericano o, perché no, mondiale. Morendo, non si è imposto la speranza che deriva, in vita, dal desiderare di essersi sbagliati. Sbagliati su cosa? Nell’aver intravisto un’oasi di verità in un deserto di finzione. Morendo prima, Bolaño si è obbligato alla coerenza (la sua) e al fraintendimento (degli altri, come vedremo). L’equivoco della gloria è stato un equivoco postumo, nel suo caso, che è come la risata di un mulo (dunque doppiata da un attore che recita in pubblicità di sottomarche di gelati). Esagerando, si potrebbe dire che Bolaño non ha fatto in tempo a diventare neppure se stesso. Al contrario, Cortázar ha fatto in tempo a diventare se stesso per sé e per tutti quelli per cui doveva diventare Cortázar, ovvero quei placidi lettori che credono nel piacere della lettura come placida stuzzicheria intellettuale. Ha fatto in tempo a porsi i dubbi giusti, le domande sbagliate e a rimuovere gli spazi bianchi, spazzolandoli con una sintassi ammirevole, quegli spazi bianchi che sono gli spazi più poetici (e crudeli e ingiusti) in cui uno scrittore possa vivere. Morendo a settant’anni, Cortázar è stato compreso e digerito. Se non è diventato il prossimo García Márquez (o il prossimo Borges), è perché era già il prossimo Cortázar. Per cui piaceva a sinistra ed era ignorato a destra, il che non rappresenterebbe alcun problema, se non fosse che una dinamica simile finisce sempre col disinnescare, mentre le leggiamo, quelle piccole bombe atomiche che sono i racconti dell’argentino – in letteratura, una bomba atomica è ad esempio un certo uso della prima persona, un uso che fa confondere, al lettore e soprattutto ai critici, la voce narrante con quella del protagonista, addirittura con quella dell’autore, oltre che, appunto, una certa (aristocratica e innata) volontà di essere ignorati sia a destra che a sinistra, un certo (aristocratico) disinteresse per le distinzioni tra destra e sinistra, e dunque tra sinistra e destra e tra mano che scrive e mano che non scrive (e che è sempre la sinistra), per dirla con Blanchot. Detto in altri termini, un’autentica bomba atomica letteraria è l’astuzia che sta nel fuggire uno sguardo commissionato da una certa morale politica, specie se autoindotta, che è sempre, come sappiamo, una morale provvisoria.


Folco Mondo | Canidi nello spazio