benice

“La cosa peggiore che potrebbe capitare a chiunque” disse Constant “sarebbe di non essere usati da per qualcosa da nessuno.”
Il pensiero la calmò. Si distese sulla vecchia sedia anatomica di Rumfoord e alzò lo sguardo verso la spaventosa bellezza degli anelli di Saturno: l’arcobaleno di Rumfoord.
“Grazie per esserti servito di me” disse a Constant “anche se io non volevo essere usata da nessuno.”
“Prego” disse Constant.
Cominciò a spazzare il cortile. L’immondizia che stava spazzando era un misto di sabbia, che il vento aveva sospinto nell’interno, gusci di semi di margherita, gusci di noccioline terrestri, scatolette vuote di pollo disossato e fogli appallottolati di carta manoscritta. Beatrice viveva quasi esclusivamente di semi di margherita, noccioline e pollo disossato perché non doveva cucinarli, perché per mangiarli non doveva neanche smettere di scrivere.
Poteva mangiare con una mano e scrivere con l’altra; e, più di ogni altra cosa al mondo, voleva prendere nota di tutto.
Con metà del cortile spazzato, Constant si interruppe per vedere se la piscina si stava vuotando.
Si stava vuotando lentamente. L’ammasso verde e viscido che copriva le tre sirene di Titano stava affiorando proprio in quel momento dalla liquida superficie che si abbassava.
Constant si chinò sopra la botola aperta del pozzetto per ascoltare il rumore dell’acqua.
Udì la musica dei tubi. E udì anche un’altra cosa.
Udì l’assenza di un suono familiare e amato.
Beatrice, la sua compagna, non respirava più.


Kurt Vonnegut | Le sirene di Titano