Gli amici mi diagnosticavano un caso molto grave, forse mortale, di aporia, ma ho il sospetto che la mia malattia non sia poi così rara, che esista una piccola tribù di altre persone che, ciascuna a modo suo, si sentono confuse e perplesse quanto me sulla direzione da prendere. A rischio di sembrare un po’ pretesco, mi sembra che abbiamo lasciato così tanto spazio agli esperti e all’autorevolezza imperturbabile che le manifestazioni di vero dubbio o di onesta ignoranza vengono ormai considerate, nella mentalità comune, una forma di codardia, una mancanza di lealtà, il segno di una fede tradita. La nostra sfera pubblica è diventata una questione di alleanze, il che prelude sempre al peggio, e mentre lavoravo su questi pezzi – bloccato, con gli occhi fissi sul bailamme di appunti contraddittori attaccati alla mia bacheca – mi chiedevo, nella mia incertezza, dov’erano tutte le altre persone che non sapevano, non capivano. Noi esitanti, noi combattuti: siamo tutti soli? Possibile? In un panorama appiattente di arringhe, affollato da figure pubbliche che parlano sempre e soltanto da una posizione di autorità definitiva e producono solo un flusso infinito di conclusioni, provo una viscerale diffidenza nei confronti di un mondo che sta facendo appello alla mia indolenza e al mio vuoto interiore, e che chiede solo che io mi arrenda. Ma una volta che ogni aspetto della vita viene sondato e reso plurale, una volta tirate le somme, calcolate le medie, date tutte le risposte, raggiunti risultati su cui ci si trova d’accordo, che succede se uno non si sente così plurale? Di fronte a tale e tanta convinzione nascondo i miei dubbi nella vergogna, o in qualcosa del genere, sentendomi isolato e solo, inutile e in qualche misura vulnerabile, con tutti i miei pensieri più intimi e urgenti condannati al soliloquio. Sbarazzarsi di quello che considero il motore di un saggio – il dubbio e l’ignoto, diciamo – ci lascia alle prese con articoli e tesi, nozioni e informazioni, la nostra parte e la loro parte, uno spaventoso ottimismo e un ancora più spaventoso pessimismo, ma senza nulla a cui rivolgerci in un momento di vero bisogno. In questo senso, non vedo altra scelta che dirigermi verso Occidente insieme ad Agostino: mi pare non solo possibile ma desiderabile che il non sapere sia la prima condizione della preghiera. Qui non ho raccolto, ovviamente, delle preghiere, ma solo un gruppo di saggi raffazzonati e sciatti. Però dietro ciascun pezzo, ad animare ciascun tentativo, c’è l’eco di una fede precaria, la fede nel fatto che siamo legati più intimamente gli uni agli altri dai nostri dubbi condivisi che dalle nostre coraggiose conclusioni.
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Charles D’Ambrosio | Perdersi