Ho incontrato la scrittura di Emmanuel Carrère circa dodici anni fa per la prima volta. Venivo da anni di letture di saggi, soprattutto musicali, e m’era tornata voglia di fiction. Così andai da mia madre, lei consultò la libreria di famiglia e tirò fuori Baffi. Romanzo dell’ambiguità di essere e non essere sé stessi agli occhi degli altri, lo adorai così tanto da finire con l’incorporarlo in uno dei racconti del mio primo libro.

Curioso, a pensarci oggi, oggi che Emmanuel Carrère è considerato il re del reportage dopo aver ripudiato la fitcion. Ad ogni modo, quando ho saputo che Carrère si sarebbe palesato quaggiù in Puglia non ho esitato un attimo. Dovevo conoscerlo, al di là dell’idolatria e del feticismo che impesta quest’epoca di hype ed eventi.

Leuca, dove si sarebbe tenuto l’incontro, è molto lontana. Direi che soprattutto reclama lontananza. Uno pensa che il Salento è tutto lì, Lecce e dintorni, e invece Leuca è un altro mondo. Tanto che mentre la raggiungi ti viene da pensare che stai tornando indietro nel tempo. Verso Gallipoli poi il paesaggio cambia. Meno cemento, più natura selvaggia, e un elenco di paesini come rigurgitati in terra da una mamma-uccello premurosa e subito dimentica del suo ruolo: Salve, Ruffano, Barbarano, Montesano, Montesardo, Alezio, Patù, Morciano…

L’incontro è in uno yacht club. Rotacismo diffuso, bon ton aziendale e milioni di euro, roba che David Foster Wallace ci sarebbe andato a nozze. All’inizio poca gente, forse anche per via del forte vento di tramontana, un po’ inaspettato per una domenica di metà giugno; poi pian piano il club si riempie, per lo più di ricconi attempati e starlette locali: gente originaria della zona che non vive più qui, in ogni caso. Spio la rubrica telefonica di una signora, mentre lei la scorre del tutto ignara del mio sguardo: numeri di taxi da tutto il mondo, un mucchio di hobby (pilates, nuoto, circoli vari), qualche nome storpiato da una digitazione distratta (una certa Patrozia di Roma). Poi arriva Carrère. Ho con me Baffi nell’edizione Bompiani del 1986, quella suggerita da mia madre.

Mi alzo, lo raggiungo. È un francese simpatico, se i francesi possono essere simpatici. Il suo essere alla mano va oltre il luogo comune delle star internazionali che dal vivo risultano alla mano. È sinceramente stupito di trovarsi sotto gli occhi quell’edizione di Baffi. “Ah, collection!”, esclama, quasi ringraziandomi. La dedica è per mia madre, ovviamente. Poi ne chiedo una per me su una vecchia edizione Hobby&Work di Io sono vivo, voi siete morti. Altro libro che.

La conversazione tra Emmanuel Carrère e lo scrittore Andrea Kerbaker dura un’ora e mezza, forse qualcosa di più, col vento che ingrossa sempre più alle loro spalle. L’interprete, una donna francese molto sottile e delicata che si chiama Berenice, segue con attenzione ogni battuta. La sua concentrazione ha qualcosa dello smarrimento, o del favore restituito controvoglia a un uomo che per lungo tempo deve averla tenuta al guinzaglio. Ogni tanto le ricche signore del pubblico la correggono stizzite quando, estenuata e infreddolita, Berenice s’inceppa nella traduzione (ad esempio confondendo, come del resto la maggior parte degli italiani, “sceneggiatura” con “scenografia”).

Quanto a Carrère, quando parla ha la stessa, lucida capacità d’argomentazione che dimostra su carta, quella stessa sapienza nel valutare entrambi i lati di ogni questione. Ma dal vivo ha qualcosa di più diretto, di più semplice, un’intelligenza di cose concrete (oltre che viva d’aneddoti) che nulla concede a espedienti retorici o astrazioni; senza esagerare, mi sembra che dal vivo Emmanuel Carrère abbia qualcosa del contadino: forse è un certo modo svagato di indossare giacca e camicia, e poi il bianco di quest’ultima che esalta l’abbronzatura; o forse è quel gesto di sfregare le dita alla ricerca della parola giusta (concretamente giusta). Ecco, dal vivo Carrère sembra scrivere “col massimo rigore e il minimo ingombro”, per citare Primo Levi; laddove l’ingombro, per molti dei suoi lettori, potrebbe essere rappresentato proprio dalla presenza costante dell’autore nei suoi libri.

Una cosa che non ho detto è che sullo sfondo oltre la terrazza dello yacht club, cioè da dove arriva il vento, si stagliano il lungomare e il porto di Leuca. Laggiù, insomma, è dove si mischiano i mari e si annullano i confini. E la conversazione tra Kerbaker e Carrère è tutta giocata sul confine. Quello valicato dai migranti di A Calais, quello più generale tra fiction e non fiction. E così Carrère racconta che è approdato alla sua personalissima forma di reportage per via di quella che definisce una questione morale: con la fiction puoi inventare qualsiasi cosa, ma quando devi gestire persone reali in un reportage non puoi fargli dire quello che vuoi. Per questo Emmanuel Carrère è sempre presente nei suoi testi: perché solo così può supporre (non: affermare) ciò che pensano persone reali come Jean Luc Romand o Eduard Limonov; da quasi un secolo, del resto, sappiamo che l’osservatore perturba sempre l’oggetto della sua indagine, dell’esperimento: perciò l’atteggiamento di Carrère mi sembra coerente, mentre dietro di lui e Berenice l’Adriatico e lo Jonio continuano a mescolarsi nel Mediterraneo.

Io invece adesso non voglio ingombrare oltre. Questo pezzo serve solo a tenere traccia di un incontro per me molto importante: se ci penso, Carrère ha influito non tanto sulla mia scrittura quanto su un certo atteggiamento di curiosità verso ciò che non conosco, anzi, verso ciò che è lontano anni luce da me. Penso a quando sono finito in una sezione di CasaPound per intervistare degli attivisti di quel movimento; oppure all’idea di fare di un senatore ex fascista il mio personalissimo Limonov (“Mi conosco: l’avversario mi distrae, mi interessa più come uomo che avversario, lo sto a sentire e rischio di credergli; lo sdegno e il giusto giudizio mi tornano dopo, sulle scale, quando non servono più”, per dirla ancora con Primo Levi); penso al libro che sto scrivendo, in cui ho sovvertito la regola di Carrère: dovendo parlare di cose a me vicinissime e non avendo – mi si perdoni il gioco di parole – il tempo di far passare il tempo necessario per scriverne, ho usato la fiction per poter dire quello che andava detto.

Ultima cosa: mentre scrivo, su Facebook mi arriva un invito alla Notte della Malota, evidente presa in giro della Notte della Taranta; penso ai maxi eventi e a tutte le star internazionali che, come Carrère, sono passate dalla Puglia negli ultimi anni; penso a com’è cambiata, questa strana e lunga regione, adesso appunto tutta eventi e grandi incontri e vita quotidiana sempre uguale, in un certo senso rapinata, perturbata continuamente dalla possibilità di quegli incontri, nati spesso dal fatto che i grandi artisti vengono qui in vacanza per poi essere precettati per un concerto o una presentazione di un libro (nel caso di Carrère, da quel che ho appreso la conversazione è stata possibile perché gli stessi organizzatori dell’incontro vengono in vacanza qui); penso a tutto questo e concludo che ci vorrebbe un Emmanuel Carrère per raccontare gli ultimi vent’anni di storia di questa regione, e poi i sogni dei suoi evaporati, e le maledizioni dei suoi revenant stanziali.

(Continua, forse…)