Vorrei dire ancora della nausea che m’ha preso per la lettura nel corso dell’estate del 2010. Una nausea che si mutava presto in terrore e poi tornava a ronzare sulle meste frequenze di una più apparentemente tranquilla nausea da due soldi: ma pur sempre una nausea. E che poi m’è passata sul finire del 2011 grazie a tre libri in particolare, accomunati, questi tre libri, non tanto dal fatto che mi sono stati in un certo senso donati quanto dalla prossimità che ho avvertito nei confronti delle persone che li hanno prodotti.
E allora vorrei partire dal titolo di questo post. «Compagnia galleggiante» l’ho rubato a un corrispondente de La Repubblica, Luigi Irdi, che l’ha utilizzato nel corso di un reportage sulla provincia italiana pubblicato un mesetto addietro sulle pagine de Il Venerdì. Ebbene Irdi si giovava di questa perifrasi per indicare la merda con cui si rischia di nuotare sulla riviera romagnola quando i depuratori smettono di funzionare a causa delle cacate del gran numero di turisti che affollano Rimini e compagnia (cantante) a fine estate. E così ecco il gancio, l’anello, il link che cercavo: quest’estate ho smesso di leggere proprio mentre mi addentravo nella cultura romagnola con un libro Sellerio (del quale ora non ricordo neppure il titolo). L’ho dovuto proprio chiudere di colpo mentre le miserie della vita vera superavano di gran lunga quelle su carta. Ora, il libro non è che fosse davvero brutto; ma in generale è ovvio che m’ero circondato di parecchia compagnia galleggiante a livello letterario. Per mesi ho avuto nausea, nausea per tutti i libri brutti o, se preferite, non imprescindibili e soprattutto per la gran mole di libri che in generale mi circondava (e che mai smaltirò) – compagnia galleggiante, appunto, o quantomeno abbondante, senz’anima, come le pile di libri tutti uguali che lasciano le penne ogni mese nelle librerie, grandi o indipendenti che siano.
Poi sono arrivati questi tre libri, per l’appunto, e pian piano ho ripreso. C’è un motivo se queste tre opere mi hanno fatto tornare la voglia di leggere; e adesso provo a spiegarvelo[1].

Prima di tutto, si tratta di tre libri piccoli, molto piccoli. Che non hanno a che fare con la piccola editoria che abito di solito o che in un caso la mettono addirittura in croce piuttosto esplicitamente. Ma andiamo con ordine. Il primo di questi è l’opera (seconda) di un mio caro amico, Sergio (Tatarano), si chiama Una vita a forma di imbuto, Sergio se l’è autoprodotto ed eccolo qui:

Il tema del libro è universale: l’imbuto è quella sorta di nostalgia della nostalgia (potenziale) che ti blocca e ti pone fuori dai giochi, da ogni gioco; ti può prendere in qualsiasi momento e ti lascia scivolare all’interno della superficie conica (a volte comica) di quell’imbuto esistenziale in cui ognuno di noi, più o meno consapevolmente, finisce almeno una volta nella vita.
A questo libro ho dato una mano io stesso, incoraggiando dapprima l’autore a scriverlo, scrivendo poi la prefazione, seguendo la parte grafica curata da Michele (che ha fatto la copertina del mio primo libro e poi illustrato Il Baleniere) e infine presentandolo insieme a Sergio qui in paese durante le vacanze natalizie. Un libro a cui non posso non essere affezionato e la cui prima stesura, guarda un po’, è stata l’unica cosa che sono riuscito a leggere, con piacere, l’estate scorsa. Tuttora al Bar Chopin (il locale in cui ci troviamo di solito, quello in cui pure abbiamo fatto la presentazione) puoi trovare dei clienti che tra un caffè e un cappuccino fanno richiesta del libro, che Daniele dietro al bancone spaccia con discrezione per conto dell’autore.
Per la verità, una volta finito di scriverlo, Sergio mi chiedeva cosa avrebbe dovuto farne. Cercare un editore? Infilarlo in uno di quei siti di dubbio gusto che trattano print on demand? Gli ho detto di lasciar perdere. Niente squali, niente false illusioni; Sergio aveva soldi da spendere e un mucchio di persone cui sarebbe comunque potuto arrivare non tanto col libro, ma soprattutto con quello che aveva da dire; e così è stato: il libro lo abbiamo amato tutti, e non poteva essere altrimenti: è passato per tante mani già prima di andare in stampa. Un libro piccolo, forse non fondamentale per molti, ma su questo oggetto minuto io e i miei amici abbiamo lavorato con cura come una casa editrice in miniatura (abbiamo persino i fotografi da presentazione, se Daniele è dietro al bancone c’è pure Gabriele, autore della foto quassù). Una casa editrice che in questo caso ha funzionato, esaurendo il suo ruolo e le copie del libro stesso (be’, non proprio e non ancora e d’accordo, i soldi li ha messi Sergio).

Di qui al secondo libro di cui voglio parlare il passaggio è facile. Si chiama Pazzi scatenati, l’ha scritto Federico Di Vita per una piccola e tradizionale casa editrice (effequ) e mi è stato regalato, anche in questo caso. Nell’introduzione lo stesso Federico, raccontando la genesi del libro, parla dell’imbuto in cui si sarebbe trovato scrivendolo (e che ha poi ovviamente superato); ma il link col libro di Sergio, è chiaro, è nel contenuto: Federico indaga la piccola editoria italiana e la fa a pezzi – con tanta ironia – o meglio, ne fa a pezzi i meccanismi e le velleità. Che sono tutte lì, Federico (purtroppo) non si è inventato nulla. Ma ecco la spettacolare pagina con cui tutto ha inizio[2]:


Bene, Federico racconta quel mondo che ho caldamente sconsigliato di frequentare a Sergio col suo libro; ma anche in questo caso, il testo di Federico l’ho letto con piacere perché in qualche modo ho fatto parte anch’io del libro, mentre l’autore lo scriveva – c’è quel pezzo in cui va alla disperata ricerca de La casa dei libri di Richard Brautigan, e in effetti Federico mi chiese consigli a riguardo, all’epoca. Ci sono cose di cui abbiamo parlato per giorni, a pezzi e morsi via mail, e su cui con lui mi interrogo tuttora. Ci sono le riviste su cui io e lui scriviamo e gli editori che conosciamo entrambi. E poi ci sono dei pezzi più narrativi, direi, in cui vien fuori tutto il talento di Federico, grandissimo lettore e scrittore di gran coscienza (non saprei dirlo meglio): mentre di solito lui sta là a fare il cazzone, il timido, il modesto; e io lì a dirgli «Forza! Tira fuori le palle!», tipo quando decisi di pubblicare un pezzo del suo primo libro qui su questo blog. E insomma, Federico le palle le ha tirate fuori davvero e ha scritto questo libro che ti spiega perché certa gente non soffocherà tra gli stilisti imprecando il credit card ma si perderà nel sottobosco della piccola editoria, il circo della piccola editoria, in cui si entra tutto sommato facile ma dal quale non si sa quando né come si esce. In cui le cose non funzionano perché i meccanismi sono quelli dei grandi gruppi solo replicati più in basso e con pochi mezzi. Il punto è che anche in quel mondo che vorrebbe ergersi a difensore e moltiplicatore di cultura, finisce che nessuno legga i libri: neppure quelli che si decide di pubblicare. Un mondo subacqueo, insomma, in cui molti cercano visibilità ma pochi hanno ancora cura dell’oscuro oggetto del desiderio – il libro, per la miseria.

E così siamo al terzo libro che, in realtà, è stato quello che ha dato impulso al genere di considerazioni un po’ confuse che sto portando avanti in questo post. Si tratta di Chiunque cerca chiunque di Francesco Forlani e in parte è una risposta ai meccanismi infernali messi a nudo dal libro di Federico Di Vita. Francesco Forlani è uno scrittore navigato, si definisce ai domiciliari, fa parte della redazione di Nazione Indiana. Ma andiamo prima con la copertina[3]:

Allora, è andata più o meno così: Francesco ha pubblicato Chiunque cerca chiunque a puntate su Facebook. Poi ha deciso di bypassare qualsiasi tipo di meccanismo editoriale, se l’è stampato da solo e ne ha fatto duecento copie da acquistare su prenotazione. Ecco, dei tre libri fin qui citati, questo è l’unico che ho pagato: ma è arrivato comunque a me con una dedica personalizzata e il mio personalissimo numero di copia (38/200); aggiungo che la dedica era scritta a penna su una foto che ritraeva la mia brutta bella faccia e che Francesco aveva avuto la cura di prendere dal mio profilo Facebook e di stampare. Senza considerare che il grosso delle copie lo scrittore ai domiciliari Francesco Forlani lo ha consegnato di persona in giro per l’Italia. Un libro che si presenta così tu non puoi proprio esimerti dal leggerlo. Un’opera ricca di umanità fin dal primo capitolo in cui c’è una ricetta partenopea in gita a Parigi, zeppa di citazioni senza risultare intellettualistica: così Francesco ha raccontato la sua vita parigina con una delicatezza verso i suoi personaggi che è autentico affetto verso quel tipo d’umanità che si incontra soprattutto per strada e tra gli sconosciuti (direi: gli inaspettati, a me piace chiamarli così).

Adesso mi torna in mente la nausea che mi prende tuttora in libreria. Credo che i commessi se ne accorgano: piglio un libro, lo sfoglio, leggo due o tre frasi ed ecco un pallido disorientamento mutarsi presto in terrore. Rimetto a posto l’oscuro oggetto del desiderio nell’imbarazzo non so se generale, ma certo mio. L’abbondanza di libri abbandonati a se stessi mi fa paura; l’abbondanza di storie di cui nessuno avrà cura mi sconforta. Dev’essere stato questo e se poi sono tornato al tempo migliore che io abbia conosciuto, che è quello appunto della lettura, un tempo dal ritmo tutto suo, e tutto mio – ecco, se ci sono tornato è perché ho trovato quasi per caso e in fila tre libri che cura, da parte di tutti (soprattutto autore e lettore) ne avevano ricevuta nel corso dei mesi o forse degli anni. E non so se questa può essere una soluzione per il mercato editoriale, se in altri termini l’autoproduzione per una cerchia ristretta di lettori, per persone, cioè, che sappiano riconoscere il valore di un’opera e la sentano necessaria, possa rappresentare il futuro o meno dell’editoria; il quale è un mondo da cui ho deciso di restar fuori, tutto sommato, e che conosco di striscio per via di qualche pubblicazione; tutto questo io non so: di certo m’hanno fatto star meglio questi tre libri e la loro genesi, m’hanno fatto respirare, meglio di mille best seller, ma è una banalità da dire. Sono contento che ci siano questi tre libri, forse può bastare, e con me altre persone: e questo, di questi tempi, è un destino o una destinazione assai insolita per un’opera cartacea.

————————————————————————————————

[1]E c’è un motivo pure se quella voglia di leggere ha fatto sì che avessi voglia di leggere finanche il reportage de Il Venerdì che passava proprio dal punto in cui mi ero fermato (la Romagna e la provincia italiana, su cui tornerò in futuro, lo prometto), dal punto in cui, insomma, passavano diversi nodi irrisolti che m’avevano bloccato.
[2]La foto questa volta è mia, come anche la successiva; entrambe prese con Clementina, la macchina fotografica rossa e più carina.
[3]Sì, ho usato il santino di Vinicio Capossela – che pure fa una brevissima apparizione in Chiunque cerca chiunque – come segnalibro, se non altro perché mi è stato regalato proprio nei giorni in cui leggevo Francesco dal trio pseudomilanese composto da Dario-Michele-Pierpaolo, e quest’ultimo – oltre a sembrare un Francesco Forlani in miniatura in quanto cuoco appassionato e parigino d’adozione – ha preso il santino per me al Teatro Smeraldo di Milano a inizio dicembre e io ho deciso di ringraziarlo pubblicamente qui per questo suo gesto.