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Poco dopo il tramonto. Passeggiavano prendendo a calci una lattina. Se la passavano di piatto, d’esterno, di collo se quella si alzava. Nel ventre piano di uno stradone desolato, gli alberi spogli, i rami secchi che uno dei due, scrivendo, avrebbe paragonato a grappoli d’artigli – mentre l’altro, quello più anziano, no: per lui sarebbero stati rami, rami rinsecchiti di un tiglio spoglio, nient’altro.
Sedettero su una panchina di legno rammollito dall’umido. Sul bordo destro un alone scuro, qualcuno che ci aveva pisciato o vomitato non più tardi di una notte prima; perciò si strinsero. Vicini, sentivano l’odore reciproco, confondendolo col proprio.
Tu lo sai, disse il più anziano, tu lo sai che di là non porta a niente.
Teneva in mano la lattina, deformata, con un piccolo squarcio su un lato.
C’è la stazione, e poi niente. Per questo non andremo da nessuna parte.
La stazione porta ovunque, disse il giovane.
I treni li hanno soppressi tutti. E poi ci sono gli alberi, quelli lì, che alberi sono?
Non lo so.
Dovresti saperlo.
Tigli?
Tigli, può darsi. C’è il polline, non lo sopporto.
Vuoi dire che sei allergico ai treni e al polline?
Ai treni che non portano da nessuna parte, ragazzo. E al polline, sì, al polline, certo.


Remo Santacaterina | Girone d’andata