Dura, ad esempio, molto poco il tempo in cui si può offendere, attaccare, soprattutto: azzannare.
Capita spesso che ci si metta di mezzo della poesia (in senso lato, tuttavia molto alto, pensate a dei coriandoli) e svanisce nel nulla, si scioglie, quel tentativo un po’ goffo d’aggressione. Si diventa impresentabili. Figurarsi presentare un’opera del tardo pomeriggio, un’opera quasi postuma.
Contro – mai fare qualcosa contro qualcuno o qualcosa, però – contro allora l’impresentabilità, contro la mediazione continua: finzione deliberata, rappresentazione. Io non sono mai. Io sono niente. Non dico: io sono nulla. Nulla ha un suono gradevole, che culla, sa di collina; il niente è una montagna, allitterzione continua, nascosta. Rappresentare il niente è ritagliarsi la possibilità di essere molte cose, più coriandoli di diverso colore insieme; e di spingerli più in là, dove non è solitudine.
Io ho vissuto, nell’ordine, con una papera, un’anatra e una piovra gigante. Non ero da solo, davvero.

Rappresentare il niente è opera carnascialesca che non ritorna nella vita. È opera che si fa dopo, ma – questa sì – di primo mattino.
Rappresentare, essere strumento; essere commesso viaggiatore che propina il niente. La scatola è vuota come il niente sotto il palco.
Essenziale è non prender sonno.

[Prossima rappresentazione live di Sono un ragazzo fortunato: 25 febbraio a Bari, Teatro Kismet, poco prima del concerto degli Ardecore; nel frattempo sono stato ospite della trasmissione radiofonica Aleph come fu che il cagnolino rise del 14 febbraio, qui si può riascoltare.]