Voglio raccontarvi una storia che ho sentito qualche notte fa dal fantasma di Agota Kristof. La storia si chiama Ieri. La consiglio a chiunque abbia voglia di scrivere, perché in un modo o nell’altro è in quella materia che va a scavare. In giro sentirete dire che questo racconto ha uno stile asciutto, freddo. Io credo invece che sia il frutto di un equilibrio miracoloso e raro di prosa e poesia; della prima ha la precisione del dettaglio e della seconda l’impalpabilità e la bellezza disturbante. Ultima cosa: consiglio di leggere quanto segue con, in sottofondo, la versione live di Home dei Depeche Mode, se possibile.
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Potremmo dire subito che Tobias Horvath è pazzo: la questione sarebbe già chiusa.
Allora diciamo che Tobias Horvath, o Sandor Lester, se preferite – tra le cose che fa, c’è questa di cambiar nome e inventarsi ogni volta una biografia diversa – è anche un figlio di puttana nel senso letterale del termine. Sua madre se la faceva coi contadini, al villaggio, e Tobias è stato tirato su e mantenuto con quei soldi. Ma non è tutto, o meglio, non è proprio così che stanno le cose. Tobias sente sua madre ansimare ogni sera, mentre lui è in cucina, sporco di fango perché ha giocato nella terra tutto il giorno. C’è però un cliente particolare, un maestro del villaggio, che di tanto in tanto si ferma in quella cucina per chiedere qualcosa al piccolo dopo aver chiavato sua madre. Ogni tanto gli accarezza i capelli.
Il primo giorno di scuola Tobias si ritrova l’uomo dall’altra parte della cattedra. A quanto pare, il cliente più affezionato di sua madre sarà anche il suo maestro, e sua figlia Caroline la sua compagna di banco.
Ma Tobias è, soprattutto, povero.
Per questo Caroline gli porta da mangiare e da vestire, perché il padre gli ha insegnato che i poveri vanno aiutati. In fondo Tobias sa come stanno le cose.
Per la verità, Tobias lo conosciamo come Sandor, è profugo in Francia e con le donne ci sa fare, le porta a letto facile, soprattutto tale Yolande che ha tutta l’aria di essere una parrucchiera. Lui però aspetta Line e intanto lavora in una fabbrica di orologi dove fa dei buchi ai cinturini, ogni giorno gli stessi buchi, negli stessi punti degli stessi identici cinturini, e dunque divide il tempo con chi fabbrica il tempo – senza, com’è tipico di ogni catena, riuscire mai a vedere in faccia la creatura finale cui sta dando vita insieme agli altri operai.
Nella solitudine del suo appartamento, Tobias mangia, si ubriaca, vomita, aspettando una donna che non ha mai visto in vita sua.
C’è anche il fatto che Tobias scrive, scrive nella sua testa, ogni tanto delle paginette vagamente simboliste, disturbanti come l’ossessione per la scrittura.
In genere mi accontento di scrivere nella testa, è più facile. Nella testa tutto si srotola senza difficoltà. Ma, una volta scritti, i pensieri si trasformano, si deformano, e tutto diventa falso. A causa delle parole.
Soprattutto, Sandor scrive nella nuova lingua. Un’ossessione. E aspetta Line. Altra ossessione.
In Francia, se sbrogliamo la matassa di racconti di pura finzione che Sandor offre in dono alle nuove conoscenze, ci è finito a causa di suo padre. Un giorno Tobias si è messo a origliare, Tobias ragazzino, dalla cucina, ha teso l’orecchio distrattamente come fa uno scrittore al bar, mentre ascolta la conversazione al tavolo accanto (fateci caso, è così che si smaschera uno scrittore, è gente pericolosa, non muore mai e non getta via niente, figurarsi se stessi). Così ha sentito il maestro che ordinava a sua madre di farsi da parte e lasciare che da buon padre pagasse gli studi al ragazzino. Altrove. Meritava di più che essere il figlio di una puttana chiavata a turno da tutti i contadini del villaggio; Tobias è molto più che uno stupido villano: a scuola ha lasciato intravedere grandi cose.
Così Tobias adesso è in Francia, scrive e lavora in fabbrica; di tanto in tanto tira di coca, il sabato passa la notte con Yolande, la chiava e non parlano di niente (niente: fate caso a questa parola), un giorno gli capita di andare fuori di testa, finisce in una clinica psichiatrica e poi da uno psicanalista. Il quale lo lascia scrivere, non ci vede nulla di male e, in fondo, neppure di bene.
No, non basta: c’è dell’altro.
Dopo aver origliato la conversazione tra suo padre e sua madre, Tobias ha atteso che si mettessero a letto e che lui la chiavasse comunque, al di là delle discussioni sul futuro, e poi, ancora, che si addormentassero uno sull’altra. Ha preso un coltello e ha fatto in modo di infilzarci il corpo del maestro e della puttana insieme.
Così Tobias è fuggito in un paese lontano ed è diventato Sandor, dimenticando padre, madre e la pietà della sua compagna di banco.
Dunque, Sandor è uno straniero, uno che ha solo strada davanti da fare e un passato che può reinventare di continuo, così scrive e aspetta una donna inesistente.
Dunque, Sandor è niente.
Solo diventando assolutamente niente si può diventare scrittori.
Pensateci: non avete una storia, disponete di una lingua nuova che fa piazza pulita di un passato inammissibile, e avete solo voi stessi al mondo.
L’ideale per scrivere, l’ideale per un’ossessione.
Ma poi Line arriva davvero.
Così arriva anche il romanzesco, che non è un fatto letterario quanto il massimo di coincidenze che ammettiamo o immettiamo, volutamente, nella nostra vita.
Line lavora nella stessa fabbrica di Sandor. Sandor non ha dubbi che sia lei. La nota sull’autobus che ogni mattina porta gli operai a lavoro. La osserva a mensa. La segue fino a casa, si procura un binocolo e la spia di sera, nascosto tra gli alberi.
Così scopre che Line ha un marito, una figlia e, soprattutto: Line è Caroline, la sua compagna di banco, ed ecco il romanzesco e la saldatura tra due ossessioni.
Sandor fa in modo di conoscere Line, ci riesce, si vedono ogni giorno, al lavoro, poi di pomeriggio, Line spiega che suo padre è un maestro – ed è vivo, dunque il coltello non è andato abbastanza a fondo – e suo marito un accademico, resteranno in Francia per un anno e poi torneranno in patria.
Per farla breve, Sandor e Line si innamorano. Sandor non resiste alla tentazione della verità. Racconta di sua madre, la puttana, Line capisce che Sandor è Tobias, il suo compagno di scuola, e inizia ad amarlo come può amarlo una futura maestra sposata a un accademico, che ha per amante un operaio figlio di puttana, il quale si è per giunta messo in testa di scrivere in una lingua non sua.
Line glielo dice davvero, che le cose stanno così, e usa proprio queste parole.
Lui no, non le dice che, tra l’altro, è anche suo fratello e che ha tentato di uccidere suo padre; solo le dice che andrà tutto bene, perché è una vita che l’aspetta.
A questo punto bisognerebbe dire della figlia di Line. Non è fondamentale nell’economia di questa storia, perché, se da un lato Tobias sarebbe pronto a prendersene cura se Line decidesse di fuggire con lui, da un altro sarà un’altra gravidanza ad accelerare il corso degli eventi.
Qui voglio comunque dire che la figlia di Line, Line che desidera Tobias e intanto lo allontana ricordandogli che è sposata e che questo non cambia il fatto che lui è solo un figlio di puttana – la figlia di Line si chiama Violetta. Come la Violetta Valery che cantava:
Amami, Alfredo. Amami quanto io t’amo: addio!
Line e Tobias non si sono sfiorati, fin qui, sebbene lei abbia accettato un tipo di penetrazione ben più intima, lasciando che Tobias continuasse a spiarla di sera col binocolo fin dentro casa sua.
In ogni caso, Line è gravida, dunque di suo marito. Nei giorni che passa in ospedale, il solo Tobias si prende cura di lei, disposto ad accogliere nella sua vita persino il nuovo nato. Sembra proprio che lo straniero continui a far fatica nel metter radici, ad esclusione di quelle, sempre vive, delle ossessioni.
Tobias inizia allora a pedinare il marito di Line, che pure ha conosciuto assecondando il desiderio di lui di interessarsi alle vicende di altri connazionali in Francia. Seguendolo, scopre il motivo del disinteresse per le condizioni della moglie: ha un’altra donna.
Metteteci anche il fatto che Line decide di abortire e che nonostante la verità sul marito sia ancora ferma sulla decisione di non fuggire con Tobias: allora ecco che lui ci prova una seconda volta.
Se toglie di mezzo il marito di Line, pensa, Line cambierà idea e non resteranno che lei, Tobias e la bambina.
Nel suo squallido appartamento, del resto, Tobias aveva già preparato una stanza per la piccola Violetta.
Tobias ci riprova, il marito di Line sopravvive alla coltellata.
Penso che in ultima analisi non sono capace neppure di uccidere una persona.
Sembra chiaro che per un certo tipo di persone le parole sono le sole armi a disposizione, peraltro spuntate.
Per gli ossessionati non esiste la dimensione del destino beffardo: solo quella dell’umiliazione. Così il marito di Line decide di non sporgere denuncia, vuole chiudere in fretta la questione e tornarsene in patria con la moglie. Lì, di comune accordo, divorzieranno. In ogni caso Line ribadisce la sua tesi: Tobias, Sandor o come diavolo ha deciso di chiamarsi, è un poveraccio, un folle, uno spiantato. Difficile contraddirla.
Qualche anno dopo le vicende di Tobias, lo scrittore francese Michel Houellebecq scriverà qualcosa del genere (vado a memoria):
Messe in relazione, le parole possono altresì separare.
Fin qui ho raccontato l’esoscheletro di quel che Agota Kristof aveva già reso, a sua volta, l’ossatura di un racconto disturbato, in bilico tra l’impossibilità della prosa e il rischio che deriva dall’inseguire la poesia, la bellezza.
Per concludere non ho trovato di meglio che le stesse ultime parole di Sandor (Sandor, proprio lui). Mi perdonerà dunque chi non ha ancora ascoltato questa storia dalla viva voce dei suoi protagonisti, se riporto qui, a grandi linee, l’ultima pagina del racconto:
Due anni dopo la partenza di Caroline, è nata mia figlia Line.
Un anno più tardi, è nato mio figlio Tobias.
Mia moglie, Yolande, è una madre esemplare.
Non scrivo più.