Quello che segue è un omaggio in forma di lettera ai libri di Paolo Cognetti, con particolare attenzione all’ultimo, Sofia si veste sempre di nero (minimum fax, 2012).

20 ottobre 2012

Caro Paolo,
le donne ti fottono con gli occhi. Occhi cerchiati di nero, del nero del trucco di dentro al bulbo o dai pugni che attirano per il fatto stesso di lasciare intuire una propria vita interiore. Forse per questo Sofia è strabica: per non farsi colpire, o per fotterti di lato, che è un modo di fotterti, come dire, laterale, appunto, a suo modo gentile, incauto ma inedito. Ma inedito un corno: Mina che esplode, Marta che non ama per il partito che (non) ha preso, Sofia che non mangia e fa la pazza, Rossana che annega e Margot che poi chissà: di donne così ne abbiamo viste e vissute a bizzeffe; è il mito di queste donne che inquieta gli uomini, che le sognano inedite e per acquietarsi quando la frusta non funziona ne fanno stereotipi. Non c’è nulla di complicato in queste donne, lo è al contrario il timore che ne hanno gli uomini e le altre, di donne, soprattutto. Mai vista una donna in gabbia sopportare una donna (potenzialmente) libera, del resto.
C’è del cuore con ritmo da zoppo, un difetto d’amore nelle vite di ognuno che ognuno di noi colma come può. Tu ci hai scritto un libro, caro Paolo, il che è un tentativo di dar vita a qualcuno o qualcosa. Dietro la griglia di particolari e dettagli che si stringe attorno ai tuoi personaggi, c’è un libro fatto col cuore. Ma su questo voglio tornare più tardi.

Il motivo per cui ti scrivo, caro Paolo, è anche l’invidia, meglio, quel tipo d’invidia che è la gelosia per qualcosa che è nell’aria e che qualcun altro acciuffa prima di te. Un’invidia nobile, che non fa uscire matti ma porta a ragionare: il tuo ultimo libro, divorandolo, ha divorato il divario tra me e la materia che tu hai trattato. Il libro che tu hai scritto avrei voluto scriverlo io (per un sacco di ottime ragioni), dunque per me è stato necessario: e altrettanto necessario è adesso non tentarmi comunque di scriverlo io. Ho trovato che c’è già quella forma che cercavo di dare alla mia infelicità costituita di piccole felicità intermittenti; è inutile creare un ingorgo d’intenti in quella direzione che tu hai esaurito; finirei, ho concluso, per scrivere il Book of Grotesque che quel personaggio di Sherwood Anderson in Winesburg, Ohio si rifiuta di pubblicare; oppure come il Pierre Menard di Borges che riscrivendo il Don Chisciotte parola su parola è convinto d’averlo (ri)scritto per davvero in originale.
(Per conseguenza un altro pensiero mi ha preso: se incontrando un libro che avremmo voluto scrivere ci impediamo con responsabilità di replicarlo, cosa accade invece quando s’incontra un’esperienza umana simile alla nostra, però più dettagliata, o anche solo più urgente nell’inseguire ciò che noi inseguivamo e che pensavamo ci contraddistinguesse sopra ogni altra cosa? In quel caso, che accade? ci impediamo la vita?)

Ma dicevo degli stereotipi con cui certi uomini si difendono da certe donne: l’anoressica, la punk, la dark, l’impasticcata e la rastafari, Erigone appesa al ramo, orfana di padre e di cane, le giovani ateniesi che in suo nome emulavano il cappio e il Kurt Cobain che brucia per una frase di Neil Young, il quale, va detto, è vivo e vegeto e morirà di noia appresso ai suoi trenini elettrici.
Ma allora salviamo l’archetipo, non a caso Sofia si fa chiamare Giona e a sua volta occupa la pancia di un pesce che non sa ancora cos’è. Salviamo l’archetipo, io salvo i tuoi, in parte anche i miei: la balena, l’alluvione che tutto purifica, l’approdo (picaresco, piratesco) all’isola d’America da parte di giovani isole. L’archetipo che non solo sgombra il campo dai dubbi, ma lo allarga e toglie il respiro, come Sofia immersa nella sua eterna casa-vasca da bagno (una macchina del tempo?); e nello sgombrare il campo dai dubbi, l’archetipo li alleva come elettrodomestici andati sui balconi della periferia di Milano: il mito, sappiamo, è persistenza e pre-esistenza di più versioni dello stesso fatto insieme.

Com’è andata, in fondo, la storia di Roberto? Padre noioso e amorevole, marito cattolico e fedifrago. In fondo solo a lui è dato deviare dal percorso che tu hai dato. A lui, così immobile, zen (nella definizione di sua sorella Marta, che ho amato finché ho potuto, finché, cioè, mi hai permesso di frequentarla, Paolo), a Roberto accade l’impensabile, in giro per il mondo a scopare l’immobile Emma; solo a lui che in fondo ha davvero compreso – oltre un certo limite, la vita è solo ciò che si può tollerare. Ma che ne sa di lui la strabica Sofia, disincantata e fessa nei confronti del padre malato? Nulla del suo vero amore assurdo, evidentemente assoluto e totale, solo un po’ inibito da quel prototipo di Alfetta che porta in giro per il mondo. Nulla che non sia l’occhio nero (di pianto struccato) di sua moglie, umiliata e offesa dalla propria incapacità di scegliere. Prendo atto, ma ci tornerò, che se c’è un Paolo in tutta questa storia, allora quello è Roberto. Roberto Muratore: il quale costruisce e poi va via, per qualcuno che abiti quelle case, senza neppure esser visto.

Vedi, caro Paolo: è una donna tua anche New York. L’ho letto in uno dei tuoi libri, uno dei più belli, che mi ha insegnato la poesia di Grace Paley e che mi sono perso per strada. La strada che facciamo è quella su cui abbiamo lasciato qualcosa. Fortunato chi tiene sempre quella stessa strada su cui ha perso un po’ di tutto, ma non tutto. Fortunato anche chi non tiene troppo al risarcimento ma vedi, caro Paolo, il punto è che quelle tue donne perse dietro a freddi calcoli calorici da clinica per disturbi alimentari, io le ho conosciute; ho i denti marci di tabacco e nell’attesa di queste donne li perderò tutti. Perché il punto non è solo che fumo molto. Il punto è che queste donne (le tue donne) sono tutte le donne. Il punto è che il mio ego è in questo caso anche ago di una bilancia: ho avuto poche donne, un’infamia in tempi di moltiplicazioni di avatar e occasioni, ma quelle che ho avuto: le ho amate in quel modo che le rende tutte le donne del mondo. E mi hanno mollato quando hanno visto in me: tutti gli uomini del mondo.

Quanto a me, caro Paolo… Anni fa un amico (forse comune) mi ha detto: «Leggi Paolo Cognetti, è lo scrittore giovane più bravo in Italia, scrive racconti.» E io ho cominciato a leggerti. Sì, scrivevi racconti e ne scrivi – anche nell’ultimo tuo libro, d’accordo, e la questione, tu lo sai bene, non è che quelli come te scrivono romanzi in forma di racconti per vendere di più, la questione è che i tempi sono cambiati e i romanzieri hanno da imparare la forma breve e metterla a bagno nella brodaglia umana e primordiale del Tempo – e ancora mi tieni incollato alla pagina, e ancora mentre descrivi il litigio tra due amanti sei capace di farmi conoscere il colore dei calzini che girano nella lavatrice nella stanza di quell’alterco; ancora incateni i tuoi personaggi alle trame e ai dettagli di una scrittura non bella ma perfetta, piana, americana, in questo probabilmente fedele a una tua visione matematica, logica, predeterminata dell’esistenza; ancora, tieni fuori l’io lirico un po’ melenso di noi italiani dalle tue storie – conta solo il raccontare, d’accordo; ancora, nell’ultimo tuo libro mi porti in giro per l’Italia e la sua storia – il terrorismo, le lotte sindacali, il cemento stupido e selvaggio, soprattutto borghese – e insomma, di te nessuna traccia, mai.
Ma poi: poi ecco quel “Quanto a me”.

“Quanto a me”, nell’ultimo capitolo del tuo ultimo libro, caro Paolo, è il tuo “Chiamatemi Ismaele”. Da dov’è uscito, mi son detto, ma senza punto interrogativo. E poi il candore delle interviste, e sul tuo blog, in cui ammetti di aver davvero conosciuto Sofia. E quelle come lei. Di aver scritto un libro sull’amore per questa ragazza. E di aver dedicato ogni racconto-frammento ai tuoi amici, perché ci sono dentro – e strano, molto strano, che non te l’abbiano fatta pagare. Quel “Quanto a me, la prima volta che ho visto Sofia Muratore…” spezza tutto in due, o anche in tre, forse quattro (libri). Sofia c’è sempre stata. Dici di aver vissuto con lei – in quanto personaggio – da non so quanti anni. E nel libro, nei tuoi libri, si sente: non solo perché sei un bravo scrittore. Non solo. Quanto perché Sofia c’è stata davvero. Non solo hai trattenuto nella memoria, ma hai restituito: a noi tutti. Alle donne che a torto o ragione si immedesimano nelle tue, a me che non mi accontento della realtà per quella che è pur adorandone il corrispettivo estetico e letterario, ai miei amici che – stiamo diventando adulti, Paolo – sembrano vivere davvero in un racconto di Raymond Carver. Ai nostri genitori, nella cui coda di comete (in)esplose abbiamo imparato il disincanto e le ipocondrie borghesi, e che mai sapranno davvero cosa ci hanno lasciato in eredità.
Ed è così che funziona: una generazione lascia il fuoco a quella successiva. Resta la luce e forse un po’ di calore. E questo è Cormac McCarthy, credo, ma vai a sapere.

“Quanto a me”, caro Paolo. Nel momento in cui ti scrivo ho trent’anni, tu ne hai trentaquattro e sei lo scrittore italiano – giovane, ma che importa? vivente, soprattutto mi importa che tu sia vivo – più implacabile e micidiale che io conosca. Quello che io devo chiederti, e che in parte hai già fatto, è di poter ricevere, da te, un giorno, un libro che funzioni come quei gesti che ti ritornano (in mente, ma non solo) dopo molti anni, una cortesia involontaria, un’accortezza non richiesta, un dono insperato e compreso, più che comprato, con anni e anni di ritardo, che ti faccia guardare indietro e ti faccia vedere il fuoco di quando eri giovane; e che non ti faccia sentire del tutto incompiuto.
Un po’ come la lettera fuori tempo massimo di Margot a Sofia; e so che tu sai cosa intendo.
Questo ti chiedo e nient’altro, Paolo, confidando nel fatto che tu l’abbia già fatto.

Dimenticavo: probabile che Sofia si vesta sempre di nero perché non solo di pelle e ossa è fatta, ma da qualche mese anche d’inchiostro.
Un abbraccio,
Marco